La comunicazione medici-famiglie

È importante che la diagnosi venga  comunicata in modo semplice e non-stigmatizzante, sottolineando che le variazioni delle caratteristiche del sesso non sono di per sé una malattia, e non sono neanche così rare. Fino a tempi recenti, i medici hanno spesso usato una terminologia poco esatta, antiquata, e non rispettosa nel comunicare (o non comunicare) la diagnosi e la proposta di cura. Il protocollo di cura in vigore dagli anni ’50 al 2006 escludeva un’onesta comunicazione della diagnosi anche ai genitori. Poi, con l’andare del tempo, solo la persona direttamente interessata rimaneva all’oscuro delle informazioni riguardanti il proprio corpo e i trattamenti a cui veniva sottoposta. I lunghi anni di questo protocollo paternalistico hanno rivelato che le persone intersex si sentono fortemente tradite sia dai genitori che dai medici quando scoprono che la diagnosi e il trattamento medico sono stati loro nascosti.

Qui segue qualche indicazione per la comunicazione e l’interazione medico-famiglia, che potrai consultare in modo più approfondito nelle “Linee guida cliniche per il Trattamento dei DSD in età infantile” tradotte in italiano da AISIA.

Dire la verità ai pazienti e ai genitori non significa solo evitare di mentire, ma anche non nascondere informazioni cruciali, quali il cariotipo, la diagnosi e altri dati relativi all’anamnesi del paziente. Quando un medico prova a proteggere il paziente con eufemismi o non rivelando determinate informazioni, rischia di ferirlo inavvertitamente e di ledere il rapporto medico-paziente.

È cruciale che vengano fornite più informazioni possibile ai genitori non solo da un punto di vista medico, mettendo in comunicazione le famiglie con associazioni e persone con VSC e storie di vita simili. Il lavoro medico dovrebbe essere strutturato in un’équipe multidisciplinare, garantendo la presenza di un/a psicologo/a per il supporto psicologico almeno iniziale rivolto a persone interessate e alle loro famiglie. L’equipe deve evitare che i pazienti e le loro famiglie si sentano stigmatizzati. Si consiglia, quindi, di seguire le pratiche elencate di seguito:

Ricorrere ad un linguaggio verbale e non verbale che trasmetta apertura e rispetto nei confronti del paziente e dei genitori. L’équipe deve assumere un comportamento tranquillo, rassicurante e onesto in ogni circostanza.

Incoraggiare il legame affettivo genitore-figlio. Nonostante siano consigliate da un punto di vista medico, indagini dettagliate sulla vita e sulla salute dei genitori potrebbero farli sentire responsabili della VSC del figlio.
Evitare di ripetere più volte le stesse domande, salvo i casi in cui siano strettamente necessarie, e fornire la motivazione medica di ogni quesito.
Discutere insieme ai genitori i punti di forza del bambino e della famiglia stessa, così da gestire al meglio le sfide che una VSC comporta.
Fornire al paziente e alla famiglia continue occasioni per parlare delle loro speranze e delle loro paure, garantendo, ad esempio, un supporto di tipo attivo (es. un percorso psicologico, il contatto con associazioni e persone adulte con VSC).

Se l’età lo permette, coinvolgere il bambino negli incontri tra l’équipe e la famiglia, al fine di renderlo partecipe nelle discussioni che lo riguardano.

Ridurre il personale medico nel corso delle visite, evitando, in questo modo, di trasmettere il messaggio errato secondo cui il paziente rappresenti un caso insolito e singolare.

Evitare esami ripetitivi a carico dei genitali, soprattutto quelli volti a misurarne le dimensioni.

Gestire i tratti di genere (es. modo di vestire, modo di comportarsi, scelte relazionali, ecc. ecc.) del bambino con la massima delicatezza, facendogli capire che sono del tutto accettabili.

Limitare il numero di fotografie ai casi in cui queste siano strettamente necessarie per la cura del paziente. Assicurarsi, inoltre, che non vengano mai rimosse dalla sua cartella: diversi adulti con VSC raccontano del trauma subito nel trovare immagini che li ritraggono nudi su testi di divulgazione medica o su siti internet.
Assicurarsi che il bambino sappia tutta la verità una volta cresciuto, in modo da evitare che ne venga a conoscenza nel modo sbagliato, per esempio, sbirciando nella sua cartella clinica.
Fare capire al paziente che la sua identità non è definita esclusivamente da una diagnosi.
Garantire l’accesso ai gruppi di supporto.